Tutta questa sezione del sito (menu qui a sinistra) è nata nel giugno 2008 in occasione della mia conferenza su Poincaré, Proust, Piaget e la genesi del simbolo matematico e letterario. Da allora essa irradia in tutte le direzioni delle scienze presenti e passate, arricchendosi via via che le mie ricerche e i miei corsi avanzano. D'altra parte, tutti gli argomenti toccati qui sono sviluppati in diversi libri.
"Quando sono pronunciati per se stessi, i verbi sono nomi, e significano una cosa determinata, infatti il parlante arresta il suo pensiero e l'ascoltatore si calma; ma non significano ancora se essa è vera o falsa. [Aristotele, Dell'espressione].
"Ora queste attitudini non sono interamente passive, e implicano presto o tardi un acquietarsi del corpo tutto intero: le membra si immobilizzano, le mani si stringono etc. non appena il poppante adotta la posizione della poppata. La calma progressiva che succede alla tempesta di grida e di pianti non appena il bimbo è in posizione di mangiare e cerca la mammella, mostra a sufficienza che, se coscienza c'è, questa coscienza è fin dall'inizio coscienza di significazione". [Jean Piaget,La Nascita dell'Intelligenza]
"Presto il corso della Vivonne s'ostruisce di piante acquatiche. Dapprima ve ne sono di isolate, come quel tale nenufar che, malamente piazzato di traverso alla corrente, questa gli concedeva così poco riposo che, al modo di un cesto azionato meccanicamente, egli non raggiungeva una riva che per tornare a quella donde era venuto, rifacendo eternamente la doppia traversata. Spinto verso la riva, il suo peduncolo si spiegava, s'allungava, si sfilava, raggiungeva l'estremo limite dalla sua tensione, fino al bordo al quale la corrente lo riprendeva, il verde cordame di ripiegava su se stesso e riportava la povera pianta fino quello che tanto più si può chiamare il suo punto di partenza, in quanto essa non vi restava un solo secondo senza ripartirne per una ripetizione della stessa manovra. Lo ritrovavo di passeggiata in passeggiata, sempre nella stessa situazione... [Marcel Proust, Du côté de chez Swann]
Nessuno chiederebbe a un bambino di otto anni che passeggia "dalla parte di Swann" di saper già scrivere come il grande Marcel Proust, per credere a quello che Marcel Proust dice, e cioè che le sue metafore d esprimono proprio ciò che quel bimbo aveva ascoltato nella voce della Vivonne. Analogamente, nessuno penserà che l’oggetto che d'un tratto genera in Galileo o Newton il silenzio della contemplazione sia già la forma simbolica che essi sceglieranno per esprimere quel che hanno sentito in quel momento di sospensione.
Un tempo – uno stesso tempo – separa l’istante in cui questi uomini si arrestano in silenzio davanti a un incensiere, un nenufar, una mela appena caduta... dall’istante in cui questi stessi uomini si esprimono infine attraverso dei simboli: delle lettere – come l, g, A, b – dei numeri – come 0, 2, 4 , 1001… – dei "geroglifici" – come – delle metafore, come «m'addormento… ».
Questo tempo – il tempo di una genesi - che si origina in un Caos senza forma, e che possiamo raccontare solo una volta che la nascita del nostro Cosmo abbia già avuto luogo – è, per i tre autori di cui parlerò - la dimensione di profondità del Simbolo: del simbolo matematico/scientifico per Poincaré e Piaget; del simbolo letterario per Marcel Proust.
L’orizzonte generale della questione posta possiede un’unità eminentemente politica, in tre sensi:
Positivamente- perchè il luogo naturale dell’incontro tra le scienze e le arti è la polis nel suo senso universale e archetipico.
Negativamente - perchè questo stesso luogo da cui scaturiscono e in cui si articolano il senso letterario e il senso scientifico dei nostri simboli è – come dirà Kant – «zu tief verborgen », troppo profondamente nascosto, per essere colto senza che uno sforzo globale della nostra Umanità tutta intera sia messo in campo . Come l’Amazzonia, l’Ozono, le Piramidi, la Luna o il Genoma, l’Unità del Simbolo rappresenta innanzitutto un oggetto che l’Umanità cerca per dire la sua sua propria identità universale.
Storicamente – perchè a fianco del Progetto Genoma o del progetto UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale dell’Umanità, le più importanti Istituzioni Internazionali (ONU, UNESCO, OCDE, EU…) hanno avviato, da una ventina d’anni, una serie di progetti di grande portata, che hanno infine creato intorno al pianeta un campo di forze, i cui due poli fondamentali sono le nozioni di "numeracy" e di "literacy".
Ecco quel che dice l'OCSE su queste due nozioni
"LA LITERACY – Il vostro sguardo si posa sulle forme arbitrarie che coprono questa pagina, ed eccovi in contatto con un altro essere umano, che è seduto davanti ad un computer, in un freddo pomeriggio di gennaio, a Parigi. Le parole passano oltre i limiti imposti dal tempo e dallo spazio : è di un’importanza capitale, perchè ciò permette un’evoluzione culturale cumulativa. Leggendo questo testo, voi non siete solamente in contatto con i pensieri di un individuo nel corso di un unico pomeriggio; indirettamente, accedete al contempo alla saggezza di tutta una cultura, di tutta una storia, che sottende questi pensieri. La literacy permette di trasmettere l’informazione al di là del tempo e dello spazio [cf.Galileo]; senza di essa, la capacità della mente umana avrebbe per limiti quelli della memoria di ciascuno. La literacy è dunque indispensabile al progresso. Per imparare a leggere, è necessaria la padronanza di un insieme di competenze complesse. È necessario dapprima imparare a decifrare le lettere di un alfabeto, dei simboli sillabici o degli ideogrammi. In seguito comprendere che questi segni corrispondono a dei suoni. Senza la fonetica, i disegni sulla pagina non sarebbero che delle forme arbitrarie.
LA NUMERACY, come la literacy, è creata nel cervello tramite un’interazione tra biologia ed esperienza. L’evoluzione ha sviluppato certe strutture cerebrali fatte per trattare il linguaggio, allo stesso modo, ne esistono altre che permettono una percezione quantitativa. Ma, sempre come per la literacy, le strutture geneticamente previste, non sono sufficienti a gestire la matematica, esse lavorano in coordinamento con altri circuiti neurali, non previsti per la numeracy ma adattati al trattamento di questa dall’esperienza. Oggi, non si dispone di elementi affidabili quanto (per giudicare quanto) all'utilità o l'inutilità di insegnare il calcolo integrale o la trigonometria a tutti gli allievi. Tuttavia, questa è la norma nei paesi dell'OCSE… al di là. Data la massa di conoscenze da integrare per sopravvivere al giorno d’oggi e le costrizioni che pesano sui programmi scolastici, obbligati a selezionarne una parte è importante domandarsi se è bene che la matematica avanzata prenda tanto posto nei programmi [...] Al contrario della matematica avanzata, la matematica di base è di un’importanza vitale per tutti gli allievi, poiché permette di vivere nelle società moderne, di leggere l’ora, di cucinare, di gestire il proprio budget".[OCDE 2007, Comprendere il cervello. Nascita di una scienza dell’apprendimento.]
Il vettore unitario della Numeracy/Literacy mira per la sua propria natura a due dimensioni
di uno stesso spazio di universalità:
• Il campo universale della nostra esistenza materiale: i fondamenti della nostra costituzione genetica, neurologica, anatomica…
• Il campo universale della nostra esistenza culturale: i fondamenti di una scienza «transdisciplinare» dei meccanismi generali del Senso.
Molto coerentemente, è dunque l'OCSE in persona – per quanto strano ciò possa apparire - che mette in guardia i cittadini che vogliono dedicarsi a quest’ ambiziosa impresa alla Ricerca del Simbolo, sul pericolo di perdita si senso che minaccia da sempre tutti coloro che si propongono di penetrare nella terra sconosciuta dove si incontrano la materia e la sua forma.
"[Capitolo 1. Un abecedario del cervello] "KAFKA" - Franz Kafka, in «Il Castello», nel descrivere i vani sforzi del protagonista per raggiungere i suoi obiettivi ci dice tutta la disperazione che può provare l'individuo di fronte ad una macchina burocratica sorda e cieca. Le resistenze alla presa in conto delle scoperte neuroscientifiche nella riflessione sulle politiche e le pratiche educative non mancano, e sono tali da scoraggiare le migliori volontà. Che si tratti di semplici incomprensioni, di inerzie mentali diverse e varie, del rifiuto categorico di rimettere in discussione certe «verità», di riflessi corporativisti di difesa delle posizioni acquisite, o di pesantezza burocratica, gli ostacoli che si ergono dinanzi ad ogni sforzo transdisciplinare mirante all’emergere di un nuovo campo, o mirante più modestamente a gettare una luce nuova sulle questioni educative, non mancano. [...] Tali difficoltà non devono tuttavia far gettare la spugna. E come diceva Lao-Tse: «il cammino, è la meta»…"[OCDE 2007, Comprendere il cervello. Nascita di una scienza dell’apprendimento.]
In ciò che segue, mi occuperò essenzialmente di ciò che una ordinaria testimonianza di senso può diventare, quando ci si mette in marcia alla ricerca di questa unità - non solamente neurologica - che originariamente salda insieme «literacy» e «numeracy», dove «originariamente» vuol dire prima della loro abissale separazione, il giorno in cui nostra madre ha iniziato a parlarci in maniera comprensibile in quella che, di conseguenza, chiamiamo la nostra «lingua madre».
La mia idea semplice e galileiana è che le parole e i numeri devono poter – direbbe Kant – parlarci della fonte comune e nascosta da cui il Simbolo Letterario e il Simbolo Matematico scaturiscono insieme. Si tratterà dunque di un cammino sperimentale, interamente condotto nel territorio in cui la nascita del senso e la perdita di senso si presentano sempre nello stesso tempo sulla bocca di tutti coloro che vi conducono la loro battaglia scientifica, letteraria, esistenziale.
Nel 1877 Henri Bergson vince il primo premio al Concorso Generale di Matematica, e la sua soluzione del problema, editata l’anno seguente negli Annali di Matematica, costituisce la sua prima pubblicazione.
Nel 1927 Bregson vince il premio Nobel per la Letteratura, mentre allo stesso tempo (in questo stesso 1927) viene finalmente pubblicato (postumo) l'ultimo volume della Ricerca del Tempo Perduto di Marcel Proust, 5 anni dopo la morte del suo autore.
Per Marcel Proust sarebbe stato essenziale che la comparsa della sua opera avesse avuto luogo in un solo tempo («l’ultimo capitolo dell’ultimo volume è stato scritto immediatamente dopo il primo capitolo del primo volume. Tutto quello che è compreso tra i due è stato scritto in seguito», scrive Proust nel 1919) mentre in un altro universo l'autore di Durata e Simultaneità e che nel nostro aveva tanto ispirato la Ricerca proustiana - avrebbe potuto prendere un Nobel scientifico.
1907-8 - Ma sappiamo bene che la Ricerca del Tempo Perduto è stata anche la Ricerca di un Editore, e che nel 1908 Marcel Proust (all’età di 37 anni) si stava ancora domandando «Devo fare un romanzo, uno studio filosofico... sono romanziere? ». Queste riflessioni del 1908/1909, avviarono in Proust una intensa meditazione sul metodo, che darà come frutto, accanto alla Ricerca, un saggio che non è mai stato pubblicato (il Contre Sainte Beuve, pubblicato postumo nel 1954) poiché nello scrivere le sue riflessioni sull'abisso che separa «l’ io profondo» e «l’io pubblico», Proust viene a capo del suo problema metodologico, e si lancia definitivamente nella scrittura della sua opera maggiore. All'opposto, durante questo stesso 1908 Jean Piaget – all’età di 11 anni - trova un editore scientifico, e ottiene la sua prima pubblicazione.
Le cose tuttavia si invertono ancora, e mentre Marcel Proust, avendo trovato il suo metodo, cerca vanamente un editore - Jean Piaget perde il suo metodo proprio a causa di Henri Bergson e della sua Evoluzione Creatrice del 1907 - e, spinto «in segreto», allo stesso tempo da e contro «il demone della filosofia» realizza infine la sua Ricerca: un «romanzo filosofico» che sarà pubblicato nel 1917:
"All’età di dieci o undici anni, subito dopo essere entrato al «collegio latino», decisi d’essere più serio. Avendo scorto un passero parzialmente albino in un parco pubblico, inviai un articolo di una pagina, a un giornale di storia naturale di Neuchâtel. Il mio articolo fu pubblicato, ed io ero «lanciato»!. [Tuttavia], invece di proseguire tranquillamente la carriera di naturalista, che mi appariva così normale e semplice dopo queste felici esperienze, subii tra i quindici e i venti anni una serie di crisi dovute insieme alle condizioni familiari e alla curiosità intellettuale caratteristica di quest’età così produttiva.
C'era il problema della RELIGIONE. A quest’epoca, ebbi la buona sorte di trovare nella biblioteca di mio padre La filosofia della religione fondata sulla psicologia e la storia di Auguste Sabatier. Divorai questo libro con un immenso piacere. I dogmi ridotti alla funzione di «simboli» necessariamente inadeguati, e innanzitutto la nozione di un'evoluzione dei dogmi - ecco un linguaggio che m'era molto più comprensibile e soddisfacente per la mente. Così una nuova passione s'impadronì di me: la FILOSOFIA. Ne seguì una seconda crisi. Il mio padrino, Samuel Cornut, un uomo di lettere, m' invitò, all’incirca a quest’epoca, a passare le mie vacanze con lui al lago d' Annecy. Mi parlava dell’Evoluzione Creatrice di BERGSON.Fu la prima volta che sentii parlare di filosofia da qualcuno altro che non un teologo; lo choc fu immenso, devo ammetterlo.[...] In primo luogo fu uno choc emotivo; mi ricordo di una sera di rivelazione profonda: l' identificazione di Dio con la vita stessa era un'idea che mi agitò quasi fino all' estasi perché mi permise da allora di vedere nella biologia la spiegazione di ogni cosa e della mente stessa. Avere avuto l'esperienza precoce di queste problematiche ha costituito, ne sono convinto, il movente segreto della mia attività ulteriore in psicologia. [Ma] i miei studi di zoologia funzionarono, se posso dire, come strumenti di protezione contro il demone della filosofia. In secondo luogo, fu uno choc intellettuale. Il problema della conoscenza (propriamente parlando, il problema epistemologico) mi apparve improvvisamente in una prospettiva interamente nuova e come un argomento di studio affascinante. Ciò mi fece prendere la decisione di consacrare la mia vita alla spiegazione biologica della conoscenza. Fui abitato dal desiderio di creare, e cedetti alla tentazione. Tuttavia, per non compromettermi nel dominio scientifico aggirai la difficoltà scrivendo - per il grande pubblico, e non per gli specialisti - una specie di romanzo filosofico – «RICERCA» – di cui l'ultima parte conteneva le mie idee [1917].
La mia strategia si rivelò efficace: nessuno ne parlò se non uno o due filosofi indignati. Rileggendo ora questi diversi scritti, che segnano la crisi e la fine della mia adolescenza - e che avevo interamente dimenticato fino al momento di riaprirli per quest'autobiografia - vi trovo con sorpresa idee che mi sono ancora care e che non hanno cessato di guidarmi nelle mie imprese più diverse."[dall'Autobiografia]
Mentre questo Jean Piaget tanto «abitato dal desiderio di creare» quanto timoroso per la sua reputazione scientifica cedeva alla tentazione dell’ estasi mistica, e si dedicava in segreto all' esorcismo del demone filosofico, e in particolare del diavolo bergsoniano, macchiandosi della vergogna pubblica di scrivere la sua "RICERCA" in stile romanzesco, Marcel Proust, abitato dal desiderio d' un metodo scientifico efficace per la ricerca della verità - ma resistente a qualsiasi tentazione di estasi intellettuale - aveva finalmente e allo stesso tempo superato la sua crisi mettendo da parte lo stile scientifico del Contre Sainte Beuve [« … da cui la grossolana tentazione di scrivere delle opere intellettuali. Grande indelicatezza. Un'opera in cui ci sono delle teorie è come un oggetto sul quale si lascia il segno dello prezzo.» [TR189]] ... per servirsi dell'unico simbolo valido per l' espressione della verità [ri]trovata, e cioè della metafora. Ciò che dunque Proust - molto coerentemente - non affermerà mai, è che il simbolo letterario «riduce» (come si esprime Piaget) la realtà che vuole esprimere:
"Gli esseri più stupidi con i loro gesti, le loro opinioni, le loro sensazioni involontariamente espressi, manifestano delle leggi che essi non percepiscono, ma che l’artista sorprende in loro. A causa di questo genere di osservazioni, il volgo crede lo scrittore cattivo, e lo crede a torto, poiché in un uomo ridicolo l’artista vede una bella generalità, e non ne fa una colpa alla persona osservata, più di quanto il chirurgo non la disprezzerebbe per essere affetta da un disturbo piuttosto frequente della circolazione; perciò si prende gioco meno di chiunque delle persone ridicole. Disgraziatamente, egli è più infelice di quanto non sia cattivo, quando si tratta delle sue proprie passioni; pur conoscendone bene la generalità, si libera con meno facilità delle sofferenze personali che esse causano.[TR208]"
Ora, questi due ricercatori condividono non soltanto il motore fondamentale che li ha spinti, ma anche il risultato finale della loro ricerca, la liberazione dello spirito da se stesso e dalla caotica contingenza del mondo:
PROUST -"Quindi mi dovevo rassegnare - poiché nulla può durare se non divenendo generale e se lo spirito muore a se stesso - all’idea che anche gli esseri che furono più cari allo scrittore non hanno fatto in fin dei conti che posare per lui come presso i pittori. [TR212]
PIAGET - Il passaggio dal Caos al Cosmo, s' opera dunque con un'eliminazione dell' egocentrismo. [...] Ma quest'organizzazione del reale si effettua, vedremo, nella misura in cui l’Io si libera da sé stesso scoprendosi e si situa così come una cosa fra le cose, un evento fra gli eventi. [CR7]
Tuttavia, nonostante questo stile di linguaggio, e il suo "movente segreto", Piaget rifiuta che la metafora che utilizza - l'espressione "l’io si libera di se stesso" non essendo per Piaget che rigorosamente metaforica, perché nella sua teoria nessun "io", che possa liberarsi di niente, esiste prima che il pensiero operatorio e simbolico non abbia fatto la sua comparsa, attorno ai 12 anni - ... sia un simbolo adeguato della verità che vuole enunciare, ossia di un simbolo altrettanto adeguato quanto il simbolo matematico, del quale è così appassionato.
Ora questa non è che una irriducibile incoerenza del sistema piagettiano (un system failure semantico), che lo investe nella sua totalità (cfr. qui sotto et qui sotto) condannandolo ad una "indelicatezza" opposta e complementare a quella denunciata da Proust nel caso di un'opera letteraria che contiene teorie ("un oggetto sul quale si lascia l'etichetta dello prezzo"). Così, l' impiego incontrollato della metafora spiritualista (cf. lo spirito e l' armonia intima del mondo di Poincaré, o la fede nel realismo di Karl Popper) di cui debordano le opere degli scienziati di quest'epoca, non è infine che l"etichetta del prezzo" che il loro cosiddetto positivismo (che non ha nulla a fare con la sua origine comtiana) paga a un integralismo privo di qualsiasi giustificazione che non sia quella di una pura e semplice Kulturkampf pre-scientifica.
Quest'atteggiamento esorcista e di caccia agli stregoni filosofici, ha purtroppo abitato gli scienziati del XX secolo, con il risultato paradossale ma inevitabile che la nevrosi della metafora rimossa non cessa d' ossessionare la loro lingua resa zoppa da un semplice difetto d'incompletezza logica, e con il risultato finale di un'oscillazione altrettanto rimuovente all' altro estremo di questo stesso pendolo, e che trasforma la scienza in un puro ed semplice aggregato di "paradigmi", che sono soltanto delle cattive "metafore", brutte ed anti-artistiche (black hole, big bang, big crunch…) – perchè in fondo "anything goes" e per " essere dadaisti occorre essere antidadisti"[Feyerabend].
Eppure, una reale presa in carico della questione del senso delle parole sarebbe stata in grado di risolvere efficacemente il problema: un cammino era (ed è) aperto e disponibile perchè una nuova sintesi possa essere realizzata, e questo cammino non è quello dell'Essere/Esistenza/Fenomenologia ma del Tempo e del suo "schematismo transcendantale", reso possibile dal Simbolo nella sua doppia (anfibologica) natura: matematica e letteraria.
Ora "dalla parte" del simbolo letterario, questo cammino è stato esaminato ed interamente e criticamente percorso da Marcel Proust. Nella biblioteca di Proust, troviamo Durata e Simultaneità. A proposito della teoria di Einstein,[Alcan, 1922] di Bergson, come «invio dell'autore» con dedica: «a Marcel Proust, Testimonianza di ammirata simpatia. H. Bergson». Proust era stato del resto paragonato ad Einstein su Le Temps e sulla Nuova Rivista Francese ma l'autore pur dicendosi lusingato da questo accostamento, aveva umilmente confessato di non conoscere le teorie in questione. Coerentemente, nella sua opera - che è allo stesso tempo una teoria generale del Simbolo Letterario, e la sua stessa espressione adeguata - non appare alcun simbolo matematico.
Al contrario, nella stessa epoca (1916) Albert Einstein - che non ci ha lasciato né romanzi, né opere filosofiche, ma soltanto delle architetture matematiche strettamente simboliche, intercalate da una folla di metafore teologiche, mistiche, filosofiche, - non aveva alcuna esitazione a pronunciarsi a nome tanto dei fisici che dei non-fisici sul senso dell' espressione «Tempo» in generale, e liquidava il senso che dal canto suo Henri Bergson attribuiva a questa stessa espressione, fulminandolo con la potenza metaforica e teologica di un «che Dio lo perdoni!». (Niels Bohr aveva pregato per questa ragione Albert Einstein di smetterla di dire a Dio quello che doveva fare).
Il carattere essenziale di quest'epoca della scienza si rende qui trasparente: l'asse dell'attenzione degli scienziati (non dei filosofi o degli artisti) s' orienta potentemente sulla questione del senso: ci si potrebbe attendere che il fisico e il matematico [neo-]positivisti, che il giovane Piaget in ricerca di creazione filosofica teme come un'inquisizione, s' esprimano unicamente, proprio a causa del loro rigore, attraverso e a proposito dei loro complessi simbolici… ma non è così: gli scienziati dell'epoca ci parlano del SENSO.
In altre parole: sono principalmente i fisici ed i matematici che all'inizio del XX° secolo hanno con potenza diretto tutta l'attenzione degli scienziati e delle istituzioni sul SENSO delle parole utilizzate dalla Scienza, e sul peso che occorre dare alle sue espressioni ed ai suoi simboli. Questo dovrà dunque essere il nostro punto di partenza.
DA UN LATO abbiamo dunque degli scienziati/epistemologi che si esprimono costantemente per metafora e dichiarano con franchezza la loro fede nella metafora:
Questa successione di dichiarazioni è rappresentativa di tutta un’epoca e del suo orizzonte semantico, che si presenta così costituito:
1) Quello che sto per dire non ha alcun senso 2)...che non sia metaforico
Ora nel modo in cui viene affermata, la successione 1)-2) realizza un giro logico perfettamente epimenideo - («sto mentendo») poiché in 1) "nessun senso" è da questi scienziati detto assolutamente, e nella loro bocca significa che nessun senso, neanche metaforico può essere "associato" alle espressioni in causa [ = le metafore della simultaneità – dell’Io, di Dio, dell' Armonia… non hanno alcun senso] … e non piuttosto che 2) esiste un possibile senso metaforico di quelle stesse espressioni assolutamente insensate.
Questi scienziati/epistemologi dichiarano dunque che tale «senso metaforico» non c'è, nel mentre che senza tregua se ne servono.
Piaget, Poincaré, Einstein... potrebbero dire «quello che stiamo dicendo con queste parole sull'"armonia intima del mondo", l’ "io che si libera da se stesso" ecc., può essere espresso in modo rigoroso soltanto con una metafora, così come quello che esprime una nozione matematica come può essere espresso rigorosamente soltanto con un simbolo»… e questo discorso (logos) sarebbe perfettamente coerente e chiaro, e non sarebbe né metaforico né simbolico: sarebbe semplicemente il discorso che è - questo discorso[= t'-auto-logos]. Ma questi sapienti non parlano mai così poiché, incredibilmente, loro stessi insistono a dire che rigorosamente nessun senso può essere attribuito alle loro parole.
DALL'ALTRO LATO Lo scrittore Marcel Proust non dice semplicemente, come fa Popper, «io parlo soltanto per metafora», ma – dopo avere profondamente riflettuto sulla Questione del Metodo – che un certo senso fra i sensi disponibili nello stesso discorso, (t'-auto-logos) è il senso metaforico, ed è utilizzando le parole in questo senso metaforico – così come i matematici utilizzano i loro simboli – che si può afferrare con una definitiva chiarezza sperimentale l'oggetto del discorso letterario, che è il Tempo Puro.
"Si può fare succedere indefinitamente in una descrizione gli oggetti che si trovavano nel luogo descritto, la verità comincerà solo nel momento in cui lo scrittore prenderà due oggetti diversi e porrà la loro relazione, analoga, nel mondo dell' arte, a quello che è il rapporto unico di legge causale nel mondo della scienza, e li chiuderà negli anelli necessari d' un bello stile, o anche come accade nella vita, quando accostando una qualità comune a due sensazioni, egli libererà la loro essenza riunendole l'una all'altra - per sottrarle alle contingenze del tempo - in una metafora, e le incatenerà col legame indescrivibile d' un'alleanza di parole." [TR196]
Così facendo, Marcel Proust guadagna allo stesso tempo una nuova «fede nelle lettere» [TR175] e una nuova teoria del Simbolo Letterario, che avrà bisogno di un'equazione di sette volumi per essere scritto.
L'obiettivo del mio discorso – complementare in questo senso al discorso proustiano – è ora che questa stessa fede nelle Lettere possa proiettare una nuova luce sui Numeri, cioè sul simbolo matematico, e viceversa.
I tre autori in questione propongono una GLOBAL THEORY sulla nascita della coscienza umana in generale, poiché tutti e tre parlano di tutti gli uomini(per Proust si tratta «della vera vita, infine scoperta e messa in luce, la sola vita quindi realmente vissuta, questa vita che in un senso, vive in ogni istante in tutti gli uomini come nell'artista. Ma essi non la vedono, perchè non cercano di metterla in luce». [TR202]). Una «global theory» significa una teoria totale che ha l'ambizione e l'onere di spiegare la sua stessa natura e nascita (così, quando Proust raggiunge la sua Teoria Globale, lascia cadere il Contre Saint Beuveeuve e si dedica al suo Grande Simbolo).
Ma una teoria globale che ha a che fare con l'origine di una coscienza che ha già raggiunto il terminus ad quem della chiarezza e distinzione formale del simbolo matematico e letterario, e che si interroga sulle sue proprie origini, si confronta fin dall’inizio con due forme archetipe complementari: la forma celeste, sincronica dello spazio cosmico - il Cielo come Cosmos - e la forma terrestre, diacronica del tempo primigenio dove nessuna teoria e nessuna coscienza erano ancora apparse: la Terra come Caos.
«All'inizio fu il Caos, quindi la Terra dall'ampio petto… La Terra partorì prima il Cielo coronato di stelle e lo rese suo uguale in grandezza affinchè la coprisse tutta intera e offrisse ai felici Immortali una dimora sempre tranquilla [Esiodo - Teog.1]
Questa struttura esiodea è logicamente necessaria, e per questa ragione tanto Poincaré con la sua "nebulosa primitiva, amorfa e non risolta" che Piaget, col suo "Caos primitivo, occulto e magico , che infine Proust, con la sua "nebulosa ancora informe, senza causa, icomprensibile...qualcosa di veramente oscuro" l' adottano, come pure l' adotta la totalità della scienza attuale con il suo apparato ricco di immaginazione visiva e metaforica, fatto di nuvole di probabilità/elettroni, di nebulose e di buchi o di corpi neri in eterna attesa che la luce d' un altro tempo arrivi per creare un altro universo.