Questo lavoro – Il fatto genetico… – ha come scopo la fondazione sperimentale di un’asserzione d'esistenza. Qesta asserzione, la mia TESI, è (p.15): esiste una mente umana come realtà sostanziale, che dispiega la sua forza evolutiva e creatrice lungo tutto il corso della nostra vita, e che è tanto irriducibile al nostro cervello quanto la massa m è irriducibile ai corpi che ne manifestano l’esistenza attraverso il loro modo di muoversi.
D’altra parte, il FENOMENO preso di mira per condurre la mia dimostrazione a buon fine è: un uomo impara a leggere, e a seguito di questo evento l’evidenza matematica fa la sua comparsa davanti la sua coscienza.
In sintesi, ciò che mi propongo di mostrare è che questo doppio evento non può spiegarsi che come la manifestazione di una stessa forza, ben reale e fisica: la nostra forza mentale, o la "potenza dinamica" della nostra mente.
La formula simbolica che ho scelto per esprimere l’unità di questo fenomeno è la seguente [figura 1]:
… che io leggo come "A percepito" produce "A letto" produce il coglimento della verità matematica evidente "A doppio implica A". In questa formula, il primo "A" significa la percezione dell’oggetto grafico sul quale si concentra la nostra voce – che afferma «questo è "A"» – quando dobbiamo imparare a leggerlo; il secondo "A" significa l 'evento finale della lettura di questo stesso A, come una lettera; e in terzo luogo, l’espressione "A<--->A" significa il giudizio esplicito "A è A", coscientemente pronunciato come una verità logica evidente, quando il soggetto legge questa formula come una "tautologia".
In sintesi io affermo, per usare un'analogia newtoniana, che allo stesso modo che la forza di gravitazione si dispiega identica a se stessa attraverso la totalità delle galassie, per svilupparsi senza soluzione di concinuità fino al fluire dell’inchiostro sul mio foglio attraverso la mia penna... in questo stesso modo una sola forza psichica è responsabile tanto della "caduta" della lettera A nella mia percezione, che del finale lampo d’evidenza che mi impone di di affermare che "A<-->A" è una verità universale.
Ora, questo modo così sintentico di presentare lo scopo del mio lavoro, così come la traiettoria scelta per portarlo a compimento, sono infine l’espressione distillata di una preoccupazione d’ordine irriducibilmente educativo e pedagogico. Mi spiego.
Se noi consideriamo i quattro "A" della mia formula, vediamo che essi esprimono, allo steso tempo: (1) l’unità/identità biografica della vita di uno stesso uomo, ritmata in due tappe; (2) l’unità/identità di un solo e stesso giudizio concernente quattro occorrrenze dello stesso oggetto ("A"), allo stesso tempo fisico, grafico, logico e simbolico.
Poiché lo stesso uomo deve ben aver percorso ciascuna delle tappe necessarie alla finale apparizione della verità matematica davanti alla sua coscienza (imparare a parlare, imparare a leggere, imparare a calcolare...) io suggerisco che una prima equivalenza quantitativa può venire stabilita. Nella misura in cui questi quattro "A" sono lo stesso "A", in questa stessa misura l’uomo che, grazie all’applicazione perseverante di una sola e stessa forza di apprendimento passa dall’uno all'altro... è uno stesso uomo.
Ciò detto, perché ho sentito l’esigenza di stabilire una tale corrispondenza tra l’evoluzione biografica di uno stesso uomo, e l’evoluzione del senso di uno stesso oggetto grafico/simbolico? È qui che la mia propria biografia può fornire un chiarimento. Sono nato nel 1967: ciò che significa che ho preso in piena faccia l’onda della "matematica moderna". In piena faccia significa che per me le parole di questi testi erano la verità definitiva, e questi testi parlano così (p.38):
(14)« Definizione. - Si chiama potenza di un numero relativo il prodotto di più fattori, tutti uguali a quel numero : an = a . a · a …· a (n volte). Sulla base di questa definizione di potenza, la scrittura "a1" sarebbe PRIVA DI SENSO . […] Supponiamo adesso l'identità a0, e consideriamo l'identità an:an= 1 (il quoziente di un numero diviso per se stesso è uguale all'unità); se nell'uguaglianza che esprime la proprietà citata noi poniamo m=n, otteniamo an:an= an-n=a0 che è una scrittura formalmente priva di senso. Poiché abbiamo constatato che an:an= 1, è spontaneo porre la convenzione a0» [Chiellini/Santoboni, Elementi di Algebra secondo la teoria degli insiemi, Torino:1981]
«Sulla base della nostra definizione della potenza nei termini di una serie di moltiplicazioni, le espressioni «a0» e «a1» sarebbero prive di senso – perché una moltiplicazione con un solo o zero fattori non ha senso: viene allora spontaneo porre per convenzione che esse sono nondimeno valide ». Queste parole descrivono perfettamente ciò che ha provocato nel mio spirito la "svolta pedagogica" che ha ispirato tutte le mie ricerche durante gli ultimi 12 anni. L’autore ci dice due cose: che una certa evidenza matematica che qui e ora abbiamo davanti a noi è "totalmente prova di senso", e che in un caso del genere la nostra "reazione spontanea" è di "porre per convenzione" etc.
La prima affermazione – la mancanza di senso di un’operazione su un solo o nessun elemento – è la conseguenza immediata della definizione di operazione matematica nei termini che Bourbaki utilizza in questo passaggio (p.44)
(20) «I. Fare algebra è essenzialmente calcolare, e cioè effettuare, su degli elementi di un insieme, delle "operazioni algebriche", di cui l'esempio più noto è fornito dalle "quattro regole" dell'aritmetica elementare.[...] II. Spogliata di ogni carattere specifico, la nozione comune soggiacente alle operazioini algebriche usuali è molto semplice: effettuare un'operazione algebrica su due elementi a e b di uno stesso insieme E, è far corrispondere alla coppia (a,b) un terzo elemento ben determinato c, dell'insieme E » [Bourbaki 1970 : 1.]
D'altra parte, la seconda affermazione di Chiellini incarna l'orientamento generale di una politica educativa: essa non ci dice cosa è effettivamente spontaneo in un caso del genere - nel momento del nostro primo incontro con un flagrante non-senso - ma ciò che deve doventarlo, date le finalità fondamentali dell'insegnamento della matematica nella nostra civiltà. In effetti, se noi osserviamo la Fig.3 (p.37)nel mio testo...
… possiamo rivivere in diretta il momento stesso in cui il nostro movimento spontaneo non decide certo di "porre per convenzione" qualcosa di totalmente incomprensibile, ma ben al contrario domanda ciò che l'anima di Socrate si domanda nel celebre VII° LIbro della Repubblica sugli eclatanti non-sensi que solo la matematica è in grado di produrre con un tale grado di violenza: ti pote semainei… che sta succedendo?. Il limite che separa i passaggi I-II dai passaggi III etc. nella Fig.III, identifica dunque molto chiaramente il momento in cui la biografia di un uomo ha l'occasione di prendere un tornante del tutto imprevisto e indimenticabile, essenzialmente a causa del fatto che una certa concatenazione grafico/simbolica ha a sua volta preso un tornante del tutto imprevisto, e che domanda una profonda e definitiva re-significazione di ciò che si sta facendo e sapendo quando "si fa dell'algebra", come dice Bourbaki. E questo, sia che si decida per la "convenzione", sia che si decida per la via socratica e cartesiana della meditazione.
La mia idea è in sintesi che questo momento, così cruciale, è inscindibilmente d'ordine matematico ed etico/pedagogico: il matematico creativo non è altri dal mio punto di vista, che l'allievo/insegnante che rifiuta di rassegnarsi al non-senso improvvisamente apparso sulla superficie di ciò che fino a quel momento era la pietra di paragone di tutto ciò che è vero, evidente, fondato, indubitabile... e che considera come "spontaneo" quel "senso puro e nobile della dimostrazione" di cui parla Dedekind nella sua celebre lettera à Lipschitz del 1876 (nel mio testo, p.320, nota 8)
«Non è propriamente rivoltante che l’insegnamento della matematica a scuola passi per un mezzo eminentemente efficace per formare l’intelletto, mentre nessun’altra disciplina (come per es. la grammatica) tollererebbe un solo istante delle simili infrazioni alla logica? Se non si vuole procedere scientificamente, o se non lo si vuol fare per mancanza di tempo, che si sia almeno onesti, e che lo si confessi francamente agli allievi, già così inclini a credere a un teorema sulla parola del maestro; sarebbe certo meglio questo, che soffocare in loro il senso della vera e nobile dimostrazione, usando delle pseudo-dimostrazioni» [À Rudolph Lipschitz. Dedekind 1876 : 41]
Ciò che ho esposto fin qui spiega dunque l'impulso primordiale e sempre agente che m'ha condotto alla sequenza evolutiva, biografica e semantica dei miei quattro "A". La matematica quale io la prendo in considerazione in questa tesi, è l'orizzonte sempre illuminato di un'incessante attività di resignificazione... e data la forza d'evidenza che la costituisce, ogni scelta intepretativa che si fa all'interno di questo orizzonte ha un peso etico/pedagogico che nulla può eguagliare al livello del nostro apprendimento di base
Insomma, all'opposto di ciò che afferma Bourbaki, "calcolare" è per me essenzialmente prendere delle decisioni responsabili sul senso dei simboli che si susseguono davanti ai nostri occhi, e la cui voce - che è la nostra - risuona nelle nostre orecchie. "Una mente umana esiste" significa dunque, infine un uomo esiste, che ha la forza di attribuire un senso nuovo alle sue pratiche di vita e di conoscenza, laddove ogni senso parrebbe al contrario aver fatto definitivamente naufragio.
Tutto quello che ho detto fin qui rende ben visibile l'oggetto matematico che ho preso di mira fin dall'inizio. Si tratta più propriamente non di un oggetto ma di un fenomeno, che io faccio agire come la voce più essenziale dell'attività matematica. Per quanto sia paradossale, questo febomeno è quello della disparizione del senso della nostra scrittura, che ci lascia in presenza della sua pura e semplice apparenza grafica.
Io ho cercato, nella fenomenologia della dissoluzione del senso dei nostri simboli ciò stesso qhe i testi citati rifiutano: non un episodio da rimuovere nel nome della "convenzione", ma ben al contrario l'espressione della natura essenzialmente bipolare del dinamismo proprio alla trasformazione matematica.
Avete un esempio eminente di questa prospettiva dinamica, fenomenologica ed evolutiva al §3.2 (p.37-38), dove mostro che dal punto di vista allo stesso tempo operatorio e soggettivo, la ratio della sequenza grandezze--> numeri naturali --> razionali --> relativi --> reali, è quella della trasformazione, che si ripete ad ogni passaggio, di una impossibilità assoluta in una necessità tanto assoluta quanto questa stessa impossibilità di partenza.
Esempio:l'operazione 3:2 è impossibile, perché 3 non è pari, e cioè 3diff.2n. E tuttavia l'operazione 3/2x2=3 è un'evidenza. Sia dunque 3/2=a. Diremo allora che 2a=3...ciò che è impossibile, a meno che non decidiamo que a è un nuovo numero, e cioè un nuovo senso della parola "numero". Abbiamo così creato un'evidenza trasformando un'impossibilità in una necessità.
Questa dinamica di "trans-modalizzazione" è per me il filo rosso che conduce, senza soluzione di continuità, dalla prima apparizione dei numeri pari/dispari nel seno delle "grandezze" (per se stesse sempre dicotomizabili, dunque "pari") fino all'apparizione dei numeri Reali nel cuore del corpo dei Razionali.
Allo stesso modo che 3/2 dal punto di vista dei Naturali, v2 è un numero impossibile dal punto di vista dei Razionali, e tuttavia esso diviene per ciò stesso, propria attraverso una tale dichiarazione di impossibilità, il seme di una nuova dimensione dell'evidenza necessaria. La mia idea è stato dunque la seguente: la vita più intima e vera dell'attività matematica è espressa essenzialmente da questa PULSAZIONE TRANSMODALE DEL SENSO
Svelando dunque fin d'ora il risultato finale del mio percorso dimostrativo, ciò che io ho fatto è stato seguire la più elementare delle esigenze di continuità, retrocedendo la mia attenzione sperimentale fino a prima del momento in cui la prima dicotomia grandezze/numeri fa la sua apparizione davanti alla nostra coscienza, e questo, ben inteso, senza mai abbandonare il nostro fenomeno di riferimento, che è la presenza di una evidenza matematica scritta davanti alla nostra attenzione. Ciò che ho ottenuto appare nella Fig.83' del mio lavoro (p.253).
In questa immagine, il perimetro di un solo e stesso "tratto di penna" racchiude il mondo della scrittura matematica alfa/numerica. Ciò significa che una prioritaria dicotomia lettere/grandezze-numeri deve articolare il mondo della lettura/scrittura, prima che la dicotomia tra grandezze e numeri possa fare a sua volta la sua apparizione. Da parte sua, questo stesso "tratto di penna" - la grammé di Euclide - capace di veicolare delle evidenze matematiche una volta che abbiamo imparato a leggere, non può acquistare questa virtù puramente soggettiva, che grazie all'intervento intenzionale della nostra voce su dei semplici grafemi percepiti (cf.§11 "L'arabesque de Galilée" - §11.1 "La fréquence de la voix et la naissance de la grammé" p.217-218).
La mia prospettiva è dunque eminentemente dinamica ed evolutiva, perché guarda alla matematica come al fenomeno irriducibilmente bipolare e movente, che si dispiega a tutti i livelli lungo la direttrice evolutiva del nostro apprendimento. Quato all'assezione che appare nella Fig.5, essa ha un "sapore" manifestamente trascendentale, che si spiega ormai facilmente sulla base della mia "dinamica transmodale di pulsazione del senso".Secondo Kant (citazione <15> p.40):
«Mostrare come un certo concetto è un principio che spiega la possibilità di altre conoscenze sintentiche a priori, ecco quello che chiamo farne un'esposizione trascendentale» [Kant,1787a: 145,73.].
Se un movimento trascendentale del nostro pensiero significa che esso si rapporta - col [ri]metterla in questione - alla possibilità di una certa verità apriori (come a1), allora la perplessità davanti a un'operazione matematica allo stesso tempo evidente e incomprensibile è un movimento trascendentale animato dall'intenzione incontrastabile che un senso deve ben rimanere intatto, sul fondo di una verità assurda.
Il mio modo di procedere mira dunque a isolare sperimentalmente un campo d'attenzione trascendentale al cui interno il nostro fenomeno di pulsazione polare del senso prende cprpo, e questo campo ci confronta a due elementi residuali frontalemnte disposti. Da una parte le nostre parole - che devono ben coservare un senso, quando i nostri simboli ci hanno abbandonato - e dall'altra i nostri grafemi, che s'incaricano nondimeno di restare la presenza ben significante di un enigma, fino al momento in cui questo non-senso si trasformerà in un senso nuovo.
La dimensione esterna in cui questa frontalità essenzialmente genetica ed evolutiva tra parole e grafemi prende corpo, è il campo dell'apprendimento scolare, mentre la sua dimensione interna è la mente umana, che si definisce di conseguenza come una forza ermeneutica che incessantemente irradia dalla nostra presenza, e che deve essere ben presente e agente lungo tutto il corso di una "oscillazione completa" del senso: evidenza, impossibilità, nuova evidenza.
Tutto quello che ho esposto fin'ora spiega bene la struttura della seconda e terza parte del mio lavoro [Riorientare lo sviluppo e Ridare una voce all'uomo]. Dal punto di vista metodologico, io perseguo la fondazione di una dinamica evolutiva del senso all'interno della biografia di un uomo. Questo mi situa sulla direttrice che molto esplicitamente lega l'opera di Jean Piaget a quella di Galileo:
«Qualunque conoscenza, sia essa d'ordine scientifico o rilevi dal semplice senso comune, suppone un sistema, esplicito o implicito, di principii di conservazione. Nel dominio delle scieze sperimentali, non c'è bisogno di ricordare come è l'introduzione della conservazione del movimento rettilineo e uniforme (principio d'nerzia) ad aver reso possibile lo sviluppo della fisica moderna, né come è il postulato della conservazione del peso che ha permesso a Lavoisier di opporre una chimica razionale all'alchimia qualitativa. È evidente che il pensiero aritmetico non sfugge a questa regola. Un insieme o una collezione non sono concepibili che se il loro valore totale resta immodificato quali che siano i cambiamenti introdotti nei rapporti tra i loro elementi. […] Allo stesso modo un numero non è intellegibile che nella misura in cui esso resta identico a se stesso quale che sia la disposizione delle unità di cui è composto: è ciò che è stato chiamato l'"invarianza del numero" » [Piaget 1941 : 16-17]
Ogni conoscenza - scrive Piaget in questo passaggio della Genesi del numero nel bambino - suppone un sistema, esplicito o implicito, di principii di conservazione. Questo è stato il case della fisica di Galileo e della chimica di Lavoisier. "Il pensiero aritmetico non sfugge a questa regola: perché allo stesso modo un numero non è intellegibile che nella misura in cui esso resta identico a se stesso quale che sia la disposizione delle unità di cui è composto". Jean Piaget si propone dunque di ripetere, al livello delle trasformazioni mentali che ritmano il nostro sviluppo, la stessa opera di matematizzazione che Galileo ha realizzato nel dominio delle trasformazioni fisiche. La mia preoccupazione principale è d'altra parte di mostrare cf.§10.1(1)(2) p. 174-182, particolarmente 174-176 et 181) che, reciprocamente, la prospettiva di Galileo è a sua volta rigorosamente genetica, perché la sua dinamica matematizzata fonda una visione cosmogonica del fenomeni.
Piaget è insomma il Galileo della psicologia perché si propone di matematizzare le nostre cinematiche mentali riportandole alle loro strutture dinamiche fondamentali, che sono esaustivamente rappresentabili, secondo lui, attraverso la struttura algebrica del gruppo.
Lungo tutto il §6 io mi occupo di mostrare l'isomorfismo rigoroso che lega il procedimento galileiano volto a stabilire e matematizzare un principio di conservazione in fisica, e il procedimento piagettiano, volto a matematizzare la fonte interna e puramente soggettiva di questa stessa esisgenza di conservazione (Fig.33 p.95):
La Fig.6 (nel mio testo la Fig.33 p.95) mostra quello che ho ottenuto seguendo questo cammino: l'evidenza di un fenomeno evolutivo di "décalage" tra le difficoltà percettive che sperimentano i bambini in età prescolare interrogati da Piaget a "conservare il numero" e la "quantità continua" quando l'apparenza sensibile di un certo recipiente (contenente dei gettoni o della bevanda) passa dal "coricato" all'"in piedi", e le difficoltà proiettive sperimentate dagli interlocutori di Salviati nel Dialogo sui massimi Sistemi di Galileo, quando si tratta di cogliere la conservazione di una stessa costante fisica. Qui (le due figure sulla destra) uno stesso "impeto" si conserva malgrado la grande differenza di inclinazione tra i due piani inclinati, e i poveri Simplicio e Sagredo hanno serissime difficoltà a convincersene. Ne concludo che Piaget ha ben ragione quando difende la "continuità funzionale" dei nostri meccanismi mentali nel corso di tutto il nostro sviluppo: dalla nostra infanzia fino alle più alte vette della scienza, una stessa "dinamica sperimentale" interviene sul nostro mondo, interno ed esterno, per fornirgli una coerenza e una coesione sempre più ricca e profonda.
Ora, su questo io oppongo molto vivamente i risultati della ricerca piagettiana alle critiche che gli sono state rivolte dalla psicologia evolutiva (innanzitutto americana) durante gli ultimi 40 anni (§6.2, pp.75-83). In effetti, se Piaget ha capito che un'irriducibile distanza evolutiva separa la mente ordinaria (e dunque infantile) dal numero pienamente matematico, questi ricercatori hanno al contrario mostrato la presenza di un "numero" nei neonati e persino negli animali. Si tratta di un risultato certo prezioso, ma questo non impedisce che il metodo di questi psicologi non è in grado di stabilire una vera e piena continuità tra la "numerosità" colta dal bambino prescolare, e l'evidenza matematica colta da questo stesso bambino una volta che ha imparato a leggere. In sintesi: un vuoto separa il numero innegabilmente percepito dai più piccoli, e il numero letto e calcolato dai loro fratelli maggiori, e di questo vuoto né Piaget né i suoi avversari sannon render conto.
E' dunque su questo crepaccio che io mi sono proposto di gettare un ponte, e l'ho fatto col collegare i processi mentali dei piccoli non a quelli del nostro pensiero adulto ordinario, ma ben al contrario ai procedimenti messi in opera dai grandi matematici que hanno fatto la gloria della nostra scienza.
Questa ipotesi di lavoro è ben espressa da questa immaginie
… che mostra un innegabile isomorfismo tra la "debolezza" della mente infantile, incapace di fare della corrispondenza uno-a-uno un criterio di determinazione della quantità di elementi di un insieme dato - perché il bambino resta vittima dell'equivalenza percettiva dei due insiemi confrontati fra loro - e la forza mentale del grande matematico, che trasforma questo stesso errore in una straordinaria fonte di verità. La mia conclusione è stata che il grande matematico è un bambino prescolare "décalé". È qui che il mio modello di sviluppo abbandona esplicitamente l'ortodossia piagettiana, per procedere verso un'intuizione a mio avviso più coerente e completa dell nostre trasformazioni mentali, lungo tutto il corso della nostra vita(Fig. 43 p.120)
Quello che dobbiamo ritenere dell'immagine in Fig.8 (Fig.43 p.120 nel mio testo) è l'identità fondamentale tra le dinamiche profonde e primordiali della nostra mente infantile (magica e sincretica), e la forza creatrice che propelle i movimenti mentali del grande matematico. Nel mezzo, osserviamo il mondo delle evidenze ordinarie, tanto incapaci di comprendere il mondo magico del bambino, che di attingere le visioni «bewildering and exhotic » (Gelman and Gallistel:cit.<79>, p. 81) dei grandi matematici.
Quanto alla nozione logicista di applicazione a=f(a), si tratta della mia risposta all'opzione bourbakista che rende necessari almeno due elementi già esistenti perché un'operazione algebrica abbia luoogo, e che conduce alla dichiarazione di non-senso di a1. La mia idea è, in una parola, che non la struttura già strutturata del gruppo (con la sua caratteristica reversibilità) ma soltanto quella, irreversibilmente strutturante dell' "Abbildung" alla radice dinamica di qualunque cinematica gruppale, può render conto dell'unità globale della nostra evoluzione mentale, e cioè dell'intera biografia di un solo e identico soggetto operatorio.
Il senso di questa rimodellizzazione dei meccanismi fondamentali del nostro pensiero nei termini di un fondo dinamico pre-gruppale e di una superficie cinematica gruppale già compiuta, è coglibile se riveniamo alla nostra "pulsazione transmodale del senso", che definisce la mia prospettiva dinamica, e che io vedo agire per tutto il corso del nostro apprendimento matematico. In sintesi: se, venuto il momento, il gruppo dei Numeri Razionali fa la sua comparsa nel cuore del Numero Naturale, questa struttura è ben impossibile dal punto di vista di questo stesso mondo di provenienza, che è tuttavia ben necessario perché questa stessa apparizione possa prodursi. Bisogna dunque molto semplicemente rimuovere il momento in cui il matematico ha avuto il coraggio di forzare il 3 a dividersi in due parti uguali, creando in questo modo un'entità impossibile (un numero 2n dispari) e tuttavia evidente, per non riconoscere che a questo primo passaggio dai Naturali ai Razionali non corrisponde un'operazione inversa. In altre parole: la messa in azione di una gruppo non è un gruppo, perché essa ha un senso, un orientamento interno in rapporto al quale non si torna indietro
Nel §8 mi occupo di fondare quest'affermazione al livello direttamente matematico: discuto la nozione di gruppo tanto dal punto di vista storico che direttamente formale, e mi trovo confermato in questa ipotesi. Si tratta di una conclusione - lo si capisce - assolutamente fondamentale, perché essa mi permette di saldare una prosepttiva direttamente matematicaa ciò che ho detto a proposito del campo trascendentale (scolare e mentale) in cui si svolge la totalità del nostro apprendimento. La nostra intera vita ne risulta caratterizzata da un'inestinguibile attività di [ri]orientamento dei nostri quadri cognitivi ed esistenziali, che acquisiscono in questo modo un senso sempre nuovo e del tutto irriducibile al loro mondo di provenienza.
Tutta la terza e ultima parte del mio lavoro - Ridare una voce all'uomo - è volta ad analizzare questa ipotesi, e a mostrare che quest'attività di incessante riorientamento non è, alla sua origine, di ordine spaziale e in questo senso "materiale", ma irriducibilmente ermeneutica: l'orientamento nello spazio è in realtà il fenomeno di supoerficie di un'attività di resignificazione del senso dei nostri quadri di vita, e cioè della nostra storia.
Ciò che io faccio in questa parte finale è dunque rendere il senso a lui stesso, facendone la materia prima del nostro corpo: una materia ben materiale dunque - perché noi siamo innegabilmente materia - ma la cui sostanza ultima non sono "atomi" o "particelle" opache a ogni significato, ma degli eventi e delle storie che tessono la trama di un tessuto essenzialmente narrativo.
Fondo quest'ipotesi a tutti i livelli dell'indagine : (1) metafisico - riscoprendo la nozione aristotelica di essere in potenza; (2) fisico, sottoponendo a un'analaisi molto dettagliata i fenomeni fondatori della nosra scienza: i fenomeni meccanici del pendolo, del piano inclinato, dell'urto tra due corpi, così come i fenomeni elettrici della pila e della dinamo. Ne risulta che nulla ci permette di dire che la materia che ci costituisce è fatta di "cose spaziali" come dice Einstein (cf.§10.1(0) p. 172), e che i fenomeni ci obbligano a riconoscere - con Wittgenstein - che la trama del mondo è quella di un susseguirsi di eventi, che trovano la loro espressione eminente nel fenomeno della frequenza, e cioè del tempo interno che ritma la vita e a voce dei fatti che noi siamo e che ci circondano.
Infine, (3) esploro la dimensione logico/matematica di quest'affermazione, proponendomi di mostrare che l'unità interna del fenomeno della dimostrazione matematica è d'ordine univocamente eventuale e narrativo, perché il lampo di un'evidenza matematica non è infine altro che il riflesso della nostra forza espressiva (la nostra voce) che il nostro essere proietta sul mondo, pretendendo che "tutto ciò che accade" possa avare un senso
Nei §10-§11 io ho insomma l'ambizione di dimostrare che la voce umana - l'intenzione di parlare - è alla radice della sua propria frequenza, del suo isocronismo e della sua individualità assoluta: la frequenza della nostra voce è il frutto della nostra incontrastabile intenzione di esprimerci, e non l'inverso. Grazie a questa inversione, la nostra voce (la sua sonorità percepibile) si rivela essere il frutto di una "attrazione frequenziale" esercitata dal nostro essere corporeo - desideroso di automanifestarsi - su una delle sue membra (le nostre corde vocali). Questo processo del resto si ripete identico nel caso dell'apprendimento a leggere/scrivere, perché è ben la nostra voce che genera la trasformazione di una linea d'inchiostro in una concatenazione di espressioni significanti, immediatamlente trasparenti al senso che noi percepiamo al loro interno.
Se ho ragione, allora una stessa forza, la forza di dare un senso alla nostra vita personale e incarnata genera dapprima la formazione della nostra voce, in seguito quella della nostra scrittura, per infine far esplodere, nel seno di questa stessa scrittura, la luce dell'evidenza matematica, che non è altro che il finale risuonare di questo postulato fondatore: la mia vita, il mondo che abito e che mi abita, deve ben poter aver un senso.
La tesi raggiunge in tal modo la sua conclusione.